venerdì 3 luglio 2009

L’imprevisto

L’interruzione involontaria e imprevista delle attività quotidiane può arrivare nella forma della malattia. I segnali che l’avevano preceduta erano evidenti. L’averli trascurati per poter portare a compimento gli impegni presi ha però determinato il blocco di ogni attività con la conseguenza di impedire di portare a termine proprio il compito che mi ero prefisso. Riporto di seguito alcuni pensieri sull’esperienza vissuta.

La malattia, il corpo e la mente

Un tempo gli uomini convivevano con la dimensione dell’imprevisto. Legate e dipendenti dagli eventi naturali, al ciclo delle stagioni le persone mettevano in conto e accoglievano quanto gli accadeva. Si sentivano, anzi si mettevano nelle mani di qualcuno o di qualcosa. Poteva essere la provvidenza, il destino o semplicemente il padrone. Oggi, uomini emancipati, ci sentiamo liberi da questi condizionamenti e forti della libertà conquistata pensiamo di essere gli artefici del nostro destino, delle nostre scelte. Organizziamo la nostra vita, facciamo piani a breve e a lungo termine sicuri che tutto procederà come programmato. Anche gli imprevisti sono sotto controllo.
Capita però che si presentino imprevisti “non previsti” che riguardano ad esempio la salute. Imprevisti che ti impediscono letteralmente di muoverti come essere colpiti da una lombo sciatalgia. Talmente dolorosa e invalidante da costringerti su un letto d’ospedale sottoposto a una terapia a base di non meglio precisati “analgesici”. Un imprevisto che capita proprio nel periodo in cui devi sostenere gli ultimi esami del corso di laurea; che ti costringe a rimandare non solo gli esami ma anche la discussione della tesi. Bella sfiga no?
La buona salute è la condizione prima del nostro agire, del nostro vivere. La diamo per scontata, sottintesa. È l’ultima cosa che pensiamo possa venir meno. Invece la malattia ci ricorda che il corpo fisico è parte integrante della persona che siamo e non possiamo trascurarlo nemmeno per coltivare la mente.

28 giugno 2009

In ospedale

Dopo una settimana di cure a casa la mia lombo sciatalgia si aggrava. Non riesco più a muovermi, a scendere dal letto. Non ci resta che chiamare il pronto soccorso. Mi vengono a prendere con l’ambulanza. Non vorrei ma non si può fare altrimenti. Sono molto arrabbiato. La barella che non gira sulle scale a chiocciola, i vicini curiosi; non posso muovermi ma sono cosciente e mi vergogno. Una volta ricoverato mi sottopongono a una flebo da 500ml. Sul flacone di vetro c’è scritto genericamente “analgesico”. Chissà cosa c’è dentro? Non lo voglio sapere, mi basta che funzioni. Nel giro di un paio d’ore il dolore si attenua; riesco a cambiare posizione, a girarmi sul fianco sinistro.
Mi guardo intorno, osservo i movimenti degli infermieri, il loro entrare nella stanza, occuparsi dei pazienti, uscire. Mi rendo conto che seguono delle ruotine precise. Il tempo è scandito da routine e questo, permettendoti di prevedere quello che avverrà nelle prossime ore, è rassicurante.
Penso che è il mio primo ricovero. Mi pare di approfittare della situazione, di abusare di un servizio che invece dovrebbe essere riservato a chi ha problemi di salute più seri come il simpatico nonnetto disteso immobile sul letto accanto al mio, reduce da una caduta dove si è fratturato una braccio, un piede e una vertebra. Mi pare che il trattamento riservatomi sia “troppo” rispetto alle mie reali necessità. È strana perché nuova questa sensazione di essere nelle mani di altri che si prendono cura di me. Posso non preoccuparmi, altri lo fanno per me. Non c’è bisogno che tenga tutto sotto controllo, posso lasciarmi andare, abbandonarmi nelle mani di altri di cui posso fidarmi. Ha qualcosa di familiare questa sensazione dolce, protettiva, rassicurante e mi chiedo quando ancora ho provato qualcosa di simile.
Dalle profondità della memoria emotiva emergono sensazioni provate nell’abbandono nell’abbraccio materno.

29 giugno 2009

Il “pappagallo”

Il primo giorno d’ospedale ho fatto l’esperienza del “pappagallo”. Il pappagallo è un recipiente sagomato in modo tale da permettere ai pazienti maschi di fare “pipì” stando a letto.
Fare “pipì” distesi non è affatto naturale. Non viene spontaneo. Tanto più se lo devi fare in una stanza dove ci sono altre persone e pensando che poi sono le infermiere a doverlo svuotare. Cerchi di convincerti che in ospedale è cosa normale, all’ordine del giorno e nessuno ci fa caso, ma ti vergogni ugualmente. Ma questo è niente: per “altri” bisogni si usa la “padella”. Fortunatamente non ho avuto bisogno di fare anche questa esperienza umiliante.

30 giugno 2009

Non tutto il male viene per nuocere

Una settimana d’ospedale senza fumo. Sarà stato l’ambiente, la situazione, i ritmi diversi dal quotidiano, l’analgesico o non so cos’altro, ma non ne sentivo il bisogno. Si, in certi momenti, per esempio dopo i pasti, mi tornava in mente il piacere della sigaretta, ma la sua mancanza, con un minimo di forza di volontà, era sopportabile.




Perché non cogliere l’occasione per smettere, mi sono detto. E così ho fatto. Tornato a casa e ripresi i normali ritmi e routine che prevedevano momenti riservati alla sigaretta, resistere è più difficile, ma finora ci sto riuscendo.

02 luglio 2009

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